Omaggio a Vittorio Alfieri (1949)

«Il Lavoro Nuovo», Genova, 16 gennaio 1949, p. 3. L’articolo è preceduto da un corsivo redazionale: «Il prof. Walter Binni, nuovo titolare della cattedra di letteratura italiana nella nostra Università, ha scritto per i lettori del “Lavoro Nuovo” questo saggio su Vittorio Alfieri di cui oggi si commemora il secondo centenario della nascita».

Omaggio a Vittorio Alfieri

Ricorre oggi il secondo centenario della nascita di Vittorio Alfieri: 16 gennaio 1749. Proprio all’inizio di una epoca ricchissima di fermenti e di realizzazioni civili, all’indomani della pace di Aquisgrana che apriva l’epoca delle riforme in Italia e la diffusione illuministica in una compatta civiltà che sale da un interesse umano e fiducioso, da una straordinaria forza di curiosità e di trasformazione. Ma l’Alfieri si trovò in quella civiltà vasta e complessa, a cui pure fu legato, nella posizione insoddisfatta di chi, al di là di un progresso di benessere e di amministrazione, al di là di un equilibrio senza troppi rischi spirituali, sente appelli piú profondi e avverte in sé un moto rudemente esplosivo e parziale, la condizione di posizioni rinnovatrici.

Privo di una cultura adeguata agli stimoli che in lui urgono, l’Alfieri muove con impazienza i congegni che l’illuminismo sensista e razionalista gli offriva rompendoli nei punti piú significativi, affrettando il loro ritmo oltre le loro native capacità. Uomo di rottura, l’Alfieri porta nel secondo settecento italiano ed europeo (uno dei limiti avvertibili della sua immagine convenzionale è quello della sua chiusura nella prospettiva solamente italiana, nella direzione solamente risorgimentale) una ricchezza di motivi nuovi che oserei dire superiore a quella di ogni altro preromantico europeo, anche se la utilizzazione di quelli fu meno fortunata di quanto avvenne per Diderot o per Herder.

Antiumanitario, antifilantropico per la sensazione profonda, anche se parziale, della genericità logorata dei motivi illuministici, iniziatore di una coscienza nazionale contro il cosmopolitismo nei suoi limiti di vaga unità astratta, di sintesi precedente la vita dei suoi elementi (ma contemporaneamente in lui un antimilitarismo fremente e l’affermazione che non c’è patria dove non c’è libertà costituivano un preciso antidoto ai nazionalismi imperialistici), l’Alfieri contrapponeva al razionalismo settecentesco utilitario ed edonistico quell’amore romantico del concreto che lo portava immaginosamente a preferire una illusione fortemente creduta alla fredda verità dei «filosofanti dal cuore peloso». E soprattutto in mezzo ad altri motivi storicamente importantissimi c’è il rifiuto in campo estetico di una giustificazione razionalistica della poesia che grandeggia nella sua intuizione non come autonoma, ma come tutta legata ad una esplosione integrale di un «impulso naturale», della tensione umana alla propria libertà.

E certo è proprio qui il punto in cui le intuizioni del romantico Alfieri, di questa specie di annunciatore della tempesta romantica, si fondono in unità attiva presentandosi a noi nella loro validità, nella loro realizzazione poetica.

Quando, dopo averlo compreso nella sua novità e liberato dal noioso velo scolastico e retorico nella sua forza di rivoluzione romantica, si considera l’Alfieri nella sua essenziale qualità di poeta, tutte quelle intuizioni geniali, spinte da un irresistibile fermento storico, prendono luce, rilievo ed esistono in maniera ben superiore alla vita che avrebbero come tentativi teorici o come abbozzi di moralista. Rinnovata e rinfrescata dall’aria libera in cui si colloca sulla prospettiva del romanticismo europeo, la poesia rivela la piú intera grandezza dell’Alfieri. E mentre la poesia alfieriana, la sua lirica atteggiata in tragedia, traduce in una poetica dell’energia e della tensione la sua urgenza di concretezza vitale, la sua rivolta all’ordine costituito delle cose e della civiltà nel suo lato di mediocre saggezza, il dramma dell’individuo che soffre i limiti impostigli dalla tragica situazione umana, essa si nutre e si complica, con una ricchezza, spesso misconosciuta, di motivi politici, di suggestioni che limitano il pericolo di «grido», di convulso volontarismo. La struggente elegia preromantica, il senso malinconico della vita umana avida di affetti resistenti e librata sulla morte e sulla rovina del tempo, l’evocazione di un paesaggio non piú pittoresco ma traducente in maniera diretta sensazioni infinite e misteriose, danno ben altra forza musicale a quel linguaggio poetico troppo spesso scambiato con i suoi residui deteriori, con una convulsa retorica senza echi musicali.

Se la poetica dell’Alfieri è agli antipodi della cura petrarchesca («perché cantando il duol si disacerba»), un arricchimento che piú facilmente si percepisce attraverso la letture delle lettere e delle rime fa trovare anche nelle tragedie ben piú che un semplice decoro e una semplice tensione drammatica.

Grande poesia e grande anima. E ancora, una volta assicurato il suo valore estetico, da quella parola densa e tragica, un appello resiste dentro ed oltre il suo valore storico di inizio romantico. L’appello di un momento inconfondibile della spiritualità romantica, l’appello dell’individuo che, nella tragica lotta contro tutto ciò che lo circonda e lo opprime, si afferma in un moto di liberazione. Non vive conformandosi, inserendosi con calcolo prudente e magari civile, ma vive in quanto si libera, in quanto contrasta e si ribella in nome della forza che lo anima a non essere «oggetto» e materiale utilizzabile. Altri momenti piú profondi in senso pessimistico e in senso costruttivo vivono poi nell’ottocento e nel novecento, e un nuovo senso di «società» riduce il gesto di affermazione dell’individuo e lo rende vivo sempre piú in senso unitario e corale. Ma la cittadella formidabile della sua libertà che non concede, che non patteggia, quando le ragioni stesse della «società» sono minacciate dentro di lei, resta nella parola alfieriana, viva di fronte a noi anche quando con fede incrollabile tendiamo alla città degli uomini al servizio di ideali sociali. E fra i versi alfieriani pochi sono cosí densi e vitali come quelli in cui quel grande avverte il ritmo potente dell’uomo nella sua libertà, nella fonte stessa della sua possibilità libera di società.

Uom di sensi e di cor libero nato

fa di sé tosto indubitabil mostra…

E il sol suo aspetto a non servire insegna.

Per questo, anche se il valore della poesia è già di per sé un valore che non vive davvero negli animi inclini alle servitú ripugnanti, alla miseria del conformismo ipocrita, il centenario di un Alfieri in molti uomini suscita qualcosa di piú profondo che il centenario di un Metastasio o di un Monti.